domenica 31 ottobre 2010

Doo Wop Halloween

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Doo Wop Halloween Is A Scream (Wanda)
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[Tracklist]
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01. - Trick or Treat - Four Flops
02. - Zombie Walk - Magics [ascolta]
03. - Headless Ghost - Nightmares
04. - Monster Mash - Frankie & the Newports
05. - Dead - Poets [ascolta]
06. - Frankenstein's Den - Hollywood Flames [ascolta]
07. - I'm in the Ground For Good - Newports [ascolta]
08. - Zombie Jamboree - King Flash & the Calypso Carnival
09. - Mummy's Ball - Verdicts [ascolta]
10. - Queen of Halloween - Chotalls [ascolta]
11. - Horror Pictures - Calvanes
12. - Spooksville - Nu-Trends [ascolta]
13. - Witch Doctor - Frankie & the Fashions
14. - Dead Man's Stroll - Revels [ascolta]
15. - Screamin' Ball - Duponts [ascolta]
16. - That Halloween Night - Denise & the Double-Dates
17. - Rockin' Zombie - Crewnecks [ascolta]
18. - Frankenstein's Party - Swinging Phillies [ascolta]
19. - My Baby Likes Scary Movies - Pete & the Bloodsuckers
20. - Nightmare Mash - Bill Riley
21. - Dorothy My Monster - Companions [ascolta]
22. - The Vampire - Archie King [ascolta]
23. - Monster's Love - Denny & Lenny with the Hollywood Ghouls
24. - At The House of Frankenstein - Big Bee Knornegay & Group [ascolta]
25. - Beware - Bill Buchanan [ascolta]
26. - Dracula - Zane Brothers
27. -  Dr. Jekyll & Mrs. Hyde - Crystalairs
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sabato 30 ottobre 2010

Black Pearls: Hipshakers


Hipshakers Vol.1: Teach Me to Monkey (Vampi Soul, 2010)

Semplicemente spettacolare! Con una ventina di temi rhythm & blues e soul da togliere il fiato, "Teach Me to Monkey" (Vampi Soul, 2010) rappresenta il primo capitolo di una serie chiamata "R&B Hipshakers" e inanella un florilegio di 45 giri usciti originariamente su King e Federal scrupolosamente selezzionati dal prestigioso speaker radiofonico e dj Mr Fine Wine (Downtown Soulville, WFMU). Le venti canzoni contenute nella raccolta interpretate, tra gli altri, da artisti come Hank Ballard, Johnny Watson, Willie Dixon, Freddy King, Eugene Church … furono registrate tra il 1956 e il 1967 e non erano mai state rieditate in precedenza. Una collezione di autentiche gemme, ballabilissime e freneticissime, con elettrizzanti chitarre e esuberanti parti vocali che in quegli anni innescarono, anche negli adolescenti inglesi dall’altra parte dell’oceano, soprattutto grazie alla diffusione via radio,  una vera e propria rivoluzione estetica e sonora. Non fatichiamo a crederci. Bomba!


venerdì 29 ottobre 2010

Black Pearls: Jump And Shout!


 Jump And Shout (Jump)

I brani di ''Jump And Shout!'' (Jump Records, ?)  ci raccontano il suono del funk e del r&b più primitivo: bassissima fedeltà, ed altissima energia. E divertimento: una gran voglia di far festa, ballare e urlare sui tempi sicopati di questi rarissimi 45 giri; brutale party music in cui si respira l’aria del più autentico spirito underground. Autentiche gemme come ''If You Wanna" di Baby Jean, ''The Zombie Stomp'' di Danny Ware, "The Grunt" di Eddie Kirk o "Way Down Home" di Larry Bright, avrebbero potuto tranquillamente arrivare in cima alle classifiche se ancora una volta non fossimo costretti a tirare in ballo la famigerata segregazione razziale che in quegli anni ('50) incideva inevitabilmente sulle programmazioni radiofoniche e di conseguenza anche sulle vendite. Peccato solo per le note di copertina offerte dalla Jump (credo una misteriosa sottoetichetta dell Crypt), praticamente assenti (scarse le informazioni riportate: manca adirittura l’anno di pubblicazione del CD e compaiono solo i titoli dei brani e gli artisti coinvolti). Restano comunque 26 scopiettanti canzoni che attendono solo di essere scoperte.You Can't Sit Down!


Note dal sottosuolo: Georgie Fame


Georgie Fame-Mod Classics: 1964-1966 (BGP, 2010)

Pochi dubbi: senza togliere merito all'intera (lunga) carriera di Georgie Fame, ritengo che la sua prima tappa artistica rimanga in assoluto la migliore, quando con i magnifici Blue Flames ripartiva il suo tempo tra gli studi della EMI e il Flamingo, uno dei club più rinomati della capitale inglese. Il grande hammondista/cantante e la sua band incisero per la Columbia tre anni di fila, dal 1964 al 1966; il risultato di questa avventura furono una decina di singoli, media dozzina di EPs e ben quattro LP, tutte opere fondamentali della cultura mod e della swingin’ London.

Georgie Fame: 20 Beat Classics (Polydor, 1991)

Per strano che possa sembrare si tratta di materiale mai raccolto in maniera esaustiva prima della pubblicazione della splendida antologia uscita quest'anno, con le uniche eccezioni di ''20 Beat Classics'' (Polydor, 1991) e ''The Very Best Of Georgie Fame & The Blue Flames'' (Spectrum Music, 1998) che però non rendevano del tutto giustizia, contenendo solo una piccolissima parte di quello stesso materiale, rimasto incomprensibilmente a marcire (descatalogato) negli archivi  per quasi cinque decadi, prima di essere finalmente riproposto. Ecco che allora i 24 temi di ''Georgie Fame, Mod Classics 1964 – 1966''  (BGP, 2010) [ascolta] completano il quadro e chiudono quasi tutti i buchi. Il cd entusiasma, merito anche dei compilatori della BGP, che hanno scelto l’approccio ''party'', favorendo il ritmo incessante e le vertigini mod. Consigliatissimo, of course!


giovedì 28 ottobre 2010

Quì Eritrea



Quando centoventimila anni fa l’homo sapiens lasciò l’africa per conquistare il resto del mondo, partì probabilmente da queste coste: pietre vulcaniche disseminate su un secco deserto roccioso, un inospitale paesaggio lunare, rari cespugli immersi in una calura opprimente. Fu una prova di coraggio e d’intelligenza da parte di quel centinaio di homo sapiens che decisero di voltare le spalle alla depressione della Dancalia e di attraversare il mare, arrivando nell’attuale Yemen. Gli altri restarono a guardare dalla riva desolata i pionieri in partenza, scossero la testa e si girarono dall’altra parte alla ricerca di una nicchia d’ombra ai piedi della catena montuosa. Oggi gli afar sono ancora lì, il popolo più coraggioso e tenace d’Eritrea. Se questa storia fosse vera, allora saremmo tutti eritrei. […] 


L’Eritrea ha un migliaio di chilometri di coste sul Mar Rosso, e davanti a queste ci sono centinaia di isole incontaminate. Appena sotto la superfice dell’acqua c’è una barriera corallina unica, con una popolazione marina senza eguali: un paradiso per pescatori sportivi e amanti delle immersioni. Ma sembra che in Eritrea i turisti non abbiano vita facile. Questo dipende in primo luogo dal fatto che il contenzioso sul confine con l’Etiopia, che ha portato alla guerra tra il 1998 e il 2000, non è mai stato del tutto risolto. […].


L’Italia nelle sue colonie non si è mai comportata meglio degli altri paesi, ma ha puntato molto su quei territori, convinta che i suoi investimenti avrebbero contribuito ad assicurare un futuro agli italiani senza lavoro in patria. Portarono quindi materie prime e attrezzature in Eritrea e costruirono gallerie, fabbriche, strade, case, ospedali, un’importantissima funivia (smontata tutta pezzo per pezzo dagli inglesi che hanno lasciato solo i piloni) e la ferrovia, che da Massaua porta fino alla capitale Asmara e da lì prosegue fino ad Agordat. Insomma, negli anni Trenta l’Eritrea aveva l’economia più sviluppata dell’Africa. […]


Nel 1993, dopo quasi trenta sanguinosi anni, l’Eritrea è diventata uno stato autonomo attraverso un referendum popolare. In quell’occasione il presidente Isayas Afeworki ha tenuto il suo primo discorso di fronte alle Nazioni Unite: ''Non posso fare a meno di ricordare le grida di aiuto che ogni anno abbiamo inviato a questa organizzazione e ad alcuni dei suoi membri per richiamare l’attenzione sulle richieste della nostra gente. L’Onu però si è rifiutata di levare la sua voce a difesa di un popolo di cui aveva ingiustamente deciso il destino, con la falsa promessa di proteggerlo''. Non è in questo modo che una giovane nazione si fa degli amici, ma l’Eritrea è uno dei paesi più ostinati dell’Africa. Senza la testardaggine dei suoi abitanti non esisterebbero neanche. Quando durante la seconda guerra mondiale i britannici cacciarono dall’Eritrea le truppe di Mussolini, nessuno potè impedire che smontassero ferrovie, funivie, intere fabbriche, fatte a pezzi e poi rimontate nelle loro colonie. 


Dopo la guerra, l’Onu approvò un cattivo compromesso, in base al quale l’Eritrea diventò parte di una federazione con l’Etiopia. Tutti sapevano che appena fosse partita la delegazione dell’Onu, Addis Abeba avrebbe dimenticato i patti e si sarebbe annessa l’intera Eritrea. Andò proprio così: gli etiopi si appropriarono di ciò che restava delle industrie e delle infrastrutture e in pochi anni l’Eritrea fù catapultata indietro all’età della pietra. I movimenti guerriglieri cominciarono la resistenza. Durante i trent’anni di guerra per l’indipendenza, gli appelli degli eritrei all’Onu per il rispetto degli accordi stabiliti non ottennero mai risposta, visto che formalmente l’Eritrea non esisteva più. Gli Stati Uniti, privilegiando gli interessi strategici sulla tutela dei diritti umani, restarono sempre al fianco dell’alleato etiope, considerato prima un appoggio nella battaglia contro il blocco dell’est e poi un baluardo della cristianità contro il terrorismo islamico. Quando l’Etiopia spodestò Hailé Selassié e diventò socialista, anche il blocco dell’est smise di sostenere l’indipendenza eritrea: era inconcepibile che un movimento ribelle marxista combattesse contro uno stato marxista. Così l’Eritrea rimase da sola. Nel suo discorso alle Nazioni Unite Afeworki lo ha detto chiaramente: il fatto che l’Eritrea esista, lo deve solo a sé stessa. L’unica cosa per la quale gli eritrei devono ringraziare sono le poche traccie rimaste degli investimenti italiani: le ferrovie, che negli ultimi anni hanno ricostruito con le proprie forze, e l’incomparabile capitale, Asmara. […]

Di fatto l’Eritrea è esistita davvero solo per cinque anni, dalla fondazione dello stato fino all’ultima guerra con l’Etiopia, costata la vita a settantamila uomini. Nel Dicembre del 2005 una comissione internazionale, con sede all’Aja, ha stabilito che in questo conflitto Asmara è stata l’agressore ufficiale. Ma allo stesso tempo ha riconosciuto le sue ragioni. Nel 2000, infatti, un’altra commissione indipendente aveva definito il tracciato del confine conteso, ed entrambe le parti si erano impegnate a rispettare la decisione. L’Etiopia però ha violato gli acordi. Intanto il presidente Afeworki si è trasformato in un dittatore. Oggi in Eritrea le leggi vengono scritte con la matita, per poter essere cancellate il giorno dopo. I giornalisti e i dissidenti vengono incarcerati. La costituzione del 1997 non è ancora entrata in vigore. I giovani vengono precettati per il servizio militare e passati due anni di leva hanno difficoltà a tornare alla vita civile. Nel paese c’è solo un partito e lo stato ha pieno controllo su ogni sfera della vita. Ma tutti possono ascoltare la Bbc, guardare la Cnn e navigare su Internet. Il governo, a parte le ingenti spese militari, si concentra sui servizi essenziali come la scuola, le infrastrutture e l’alimentazione. […] E in ogni caso in Eritrea continua ad esserci un ottimismo contagioso.
[ Brani tratti da un articolo pubblicato nel 2006 da Plinio Bachmann su Das Magazine, Svizzera]


ASMARA ALL STARS


L'Eritrea è uno dei paesi più giovandi del mondo per media d'età. Ci sono circa cinque milioni di abitanti, e quelli che lavorano, nella stragrande maggiranza dei casi, lo fanno per lo stato. Purtroppo non si può certo dire che ad Asmara i musicisti abbondino, e nemmeno i vecchi canti ribelli, così cari al popolo eritreo, sembrano più riscuotere la stessa passione di un tempo. Anche per questo registrare un disco da quelle parti dev'essere impreasa tutt'altro che facile. Un piccolo aiuto in questo senso è arrivato però nel 2008 dal produttore francese Bruno Blum (famoso soprattutto per il lavoro svolto nei dischi ''reggae'' di Serge Gainsboug) arrivato nella capitale eritrea con l’intenzione di dar vita a un'ambizioso progetto chiamato Asmara All Stars che recuperasse lo spirito del glorioso passato musicale di una città e di un paese, favorendo la 'rinascita' di vecchie leggende della musica eritrea come Ibrahim Goret e Brkti Weldeslassie. Accanto a loro altri talenti, più giovani: Faytinga, Adam Hamid, Temasgen Yared e Sara Teklesenbet, ma anche membri di band di soul e blues come KunamaNara, Bilen, Afar, Saho, Hedaareb, Tigré e Tigrigna. La band ha appena pubblicato per l'etichetta Out Here Records quello che per il momento è il loro primo album: ''Eritrea's Got Soul'' [ascolta]


Nel disco, registrato con un sistema analogico e una sezione di fiati importante, si combinano disparate sonorità, e il suono di questa formazione è la summa di molteplici esperienze ed influenze musicali, incluso quelle provenienti dalla sponda opposta di uno dei confini più ''segnati'' d’Africa. L’uso di antichi strumenti tradizionali abissini, vengono infatti combinati con elementi soul, jazz, reggae (e in qualche caso anche hip hop), sempre in bilico tra vecchio e nuovo. C’è chi, (in risposta all’Ethio-Jazz) si è già spinto a parlare di Eri-Jazz, ma anche queste etichettature e considerazioni lasciano il tempo che trovano. Io invece preferisco solo prendere atto della bontà di un disco che nel suo piccolo, in un paese complicato e contraddittorio come l’Eritrea, rappresenta comunque un segnale estemamente importante.



FAYTINGA


Tra i nomi convolti nel progetto degli Asmara All Star c’è anche la cantante Faytinga. Nata nel 1963, l’artista eritrea appartiene all’etina Kunama, una tribù in cui uomini e donne hanno gli stessi diritti. Faytinga è un nome che suona come la storpiatura di quello paterno; Faid Tinga, venerato dai Kumana che combattevano per l’indipendenza del proprio paese per essere un oppositore talmente focoso che i beffardi inglesi, all’inizio degli anni Cinquanta, lo ribattezzarono Fighting Gun (fucile da combattimento). Lei invece si arruola nell’esercito nel 1978, all’età di 14 anni, e resta al fronte fino al 1991, data della ''fragile'' fine della guerra eritreo-etiope. Il sogno di Faytinga, che era sempre stato quello di cantare, inizia a realizzarsi proprio quando viene inviata a intrattenere le truppe al fronte con canzoni in grado di infondere ai soldati speranza e determinazione. Proprio in quegli anni inizia a comporre brani propri, senza però rinunciare alle interpretazioni e alle riproposizioni di artisti e celebri poeti del suo paese che musica accompagnandosi al suono dell’immancabile krar, la lira tradizionale della sua regione. 

Faytinga: Numey (Cobalt, 1999)

Consumata ed elegante ballerina oltre che talentuosa cantante e musicista, Faytinga non ci mette poi troppo a convertirsi in un'importante punto di riferimento per il suo popolo. All’inizio degli anni Novanta realizza un tour negli Stati Uniti ed in Europa con un piccolo gruppo a seguito, mentre qualche anno dopo ripete l’esperienza sola. Dopo la pubblicazione di un lavoro uscito (credo) solo su nastro nelle solite cassettine africane, il suo nome e la sua musica iniziano a circolare sempre più insistentente, e dopo aver prestato la propria collaborazione quà e là arriva persino a insignarsi di alcuni importanti riconoscimenti nell’ambito della musica africana . Nel 1999 esce finalmente per la Cobalt quello che viene considerato il suo primo disco vero e proprio, ''Numey'' (letteralmente: ‘’non interrompere il narratore’’) [ascolta] seguito nel 2006 da ''Eritrea'' [ascolta], album in cui Faitynga, iniziando dal titolo scolpito sulla copertina, esprime l’amore assoluto, ossessivo e del tutto reciproco per il suo paese. 

Faytinga: Eritrea (Cobalt, 2006)

Non è un caso, infatti, che tutti i brani vengano proposti nell’antica lingua kunama e che molti di questi siano stati registrati con la complicità di vecchi musicisti della famiglia Manka, anche se la cantante ha saputo incorporare rispettosamente sonorità e arrangiamenti moderni che rendono questo lavoro deliziosamente inclassificabile. Musicalmente, rispetto al precedente ''Numey'', Faytinga usa/osa anche una detonante chitarra elettrica quì e un impercettibile arrangiamento flamenco lì; ma guai a toccare il suo krar o spegnere il pianto del violino wata (strumenti che sono una costante nella musica dell’artista eritrea). Il suono è sodo e tirato, a cura del duo di produttori congo-parigini Madioko. Lei ci dispiega dentro il suo canto vetroso e le acidule ricette melodiche della tradizione: amore e guerra, il coraggio dei combattenti e quello degli amanti. Orgoglio kunama mescolato all’aria dell’altopiano di Asmara. La prova che quando le armi smettono di cantare, i cantanti tornano a fare il loro mestiere.


martedì 26 ottobre 2010

Esotismi umidi a go-go



Novità alle porte in casa Soundway: stà infatti per uscire ''The Sound Of Siam: Leftfield Luk Thung, Jazz and Molam from Thailand 1964 -1975'' (disponibile il pre-order) un'antologia dalla bella copertina picassiana che amplia gli orizzonti musicali dell'etichetta britannica, che sposta l’attenzione su territori fino a questo momento inesplorati approdando per la prima volta in Asia [...] A unique vantage point to the most experimental period in Thai musical history. The 19 tracks reflect the outcome of a twentieth century journey from Thai classical to Luk Krung and Luk Thung – music that incorporated western influences such as jazz, surf guitar, ballroom and even Latin and African. The music maps changing social demographics, the movement of people, culture and language from countryside to city and all during a period when the record labels were at their most experimental.

 rakอรอุมา สิงห์ศิริ (onuma singsiri) - สาวอีสานรอรัก (sao isan ro)

Trattandosi di artisti poco noti al pubblico occidentale ( e del tutto sconosciuti al sottoscritto ), in attesa di mettere le mani sull’antologia, ho cercato di sazziare la mia implacabile curiosità attraverso alcune rapide ricerche, partendo naturalmente dai nomi in scaletta, e sono arrivato alla scoperta di questo esoticissimo blog di musica thailandese e al ''prelievo'' di un paio di lavori (sopra e qui).

Saigon Rock & Soul (Sublime Frequencies, 2010)

Rimanendo in quell’area del continente, è curioso constatare come negli anni Sessanta e Settanta i rocker locali facessero il verso a beat, surf, swing, psichedelica, funk e rock’n’roll proponendo immagini esotiche e rassicuranti di se stessi e delle loro musiche tradizionali. Emblematica in questo senso ''Saigon Rock & Soul: Vietnamese Classic Tracks 1968-1974'' antologia da poco licenziata dalla Sublime Frequencies che, come d'abitudine ha sguinzagliato i propri ''cercatori di suoni scricchiolanti'' direttamente in Vietnam per proporci 17 splendidi brani rimasti a lungo inediti, prodotti tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Sessanta e recuperati da vecchi e umidi 45 giri o nastri originali dell’epoca.


Da qualche tempo a questa parte le raccolte di oriental sound, perlopiù sixty e seventeen, sembrano avere, in rete e nei negozi specializzati, un seguito in crescita costante e la Sublime Frequencies è sicuramente una delle etichette più attive da questo punto di vista. Del resto è impossibile resistere (a partire dalle esotiche copertine) al fascino di eccentriche compilation intitolate ''Singapore A-Go-Go'', ''Siamese Soul: Thai Pop Spectacular'', ''Shadow Music of Thailand'', ''Cambodian Cassette Archives: Khmer Folk & Pop Music'' ecc.


Andando un po' indietro, tra le prime antologie in questo senso ricordiamo almeno la mitica (consigliatissima!) Cambodian Rocks (1996) dell'effimera Parallel World, [ascolta] (e i successivi volumi della Khmer Rocks) o anche quelle della svedese Subliminal Sounds di Thai Beat a Go-Go voll. 12 & 3 (2004-2005). 

Cambodian Rocks (Parallel World, 1996)

Rimanendo in Cambogia, è evidente come vicende tragiche quali il colpo di stato appoggiato dagli USA, i bombardamenti ordinati da Nixon sul sentiero di Ho Chi Minh (nel sudest cambogiano) e i relativi echi del conflitto nel vicino Vietnam (con i comunisti cambogiani schierati dalla metà dei '60 con il nord), siano andati di pari passo in quei paesi con una dieta sotterranea di rock, garage e beat evidentemente filtrata attraverso le radio delle forze militari statunitensi.

 


Gli stessi programmi radiofonici piombavano dal vicino Vietnam alla Tailandia, dove i marines erano di stanza o vi venivano inviati per eventuali recuperi psicologici. Generalmente quei soldati sostavano nella viziosa Bankok e spesso avevano con sé dischi e radioline. I musicisti locali non impiegarono molto a capire che l’ autoesoticizzazione era anche molto conveniente da un punto di vista economico. In tal senso i cd di ''oriental rock'' servono anche a capire come può funzionare il cosiddetto esotismo al contrario, ovvero come loro, ''gli altri'', finirono per risultare esotici anche in casa propria.

Thai Beat  A Go-Go Vol.1 (Subliminal Sounds, 2004)


Thai Beat A Go-Go Vol.2 (Subliminal Sounds, 2004)


Thai Beat A Go-Go Vol.3 (Subliminal Sounds, 2005)

E allora ecco alcuni dei più noti cantanti cambogiani alle prese con riff ultrabeat, tutto rigorosamente cantato in khmer o gli equivalenti interpreti femminili tailandesi che rieseguono classici come ''Shake Baby Shake'', ''Louie Louie'' o perle di pop psichedelico europeo come ''Je T'aime Moi Non Plus'' di Serge Gainsbourg.. Dischi che reiterano una tradizione di esotismi che ora il mondo di internet sta contribuendo a rinfocolare.

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sabato 23 ottobre 2010

Che senso ha una rivoluzione se non la si fa cantando?


Alain Mabanckou

Sul numero precedente (868) di Internazionale (sempre sia lodato!) è stato proposto un’interessantissimo articolo dello scrittore Alain Mabanckou uscito su Libération con il titolo ''Indépendance cha-cha'' . Nato a Pointe-Noire in Congo nel 1966, Mabanckou ora vive a Santa Monica, in California, ed è professore di letteratura francofona all’University of California, Los Angeles. Il suo articolo gira attorno a una rumba di Grand Kalle, che tutti sentivano, ballavano e cantavano nell’Africa francofona degli anni ’60, brano simbolo dell’euforica stagione dell’anticolonialismo e dell’ independenza. Allo stesso tempo l’autore, partendo dalle ''ingenue'' illusioni del suo popolo, evidenzia le contraddizioni e gli aspetti negativi del post-colonialismo alludendo all’esplosione dei conflitti etnici, degli omicidi politici e dei ''colpi di stato permanenti'' che sarebbero diventati i nuovi (tragici) caratteri distintivi del suo continente. Ripeto, l’articolo è molto interessante, e anche se non si potrebbe, non ho resistito alla tentazione di riportarne un pezzettino direttamente qui sotto. Per la lettura integrale, invece, rimane Internazionale ( volendo si può anche acquistare in formato pdf ) oppure l’originale disponibile in rete (qui), ma in francese.


L'ARTICOLO (BRANI)

Alain Mabanckou & family

Negli anni Sessanta, quando molti paesi dell’Africa francofona stavano entrando uno dopo l’altro nell’era dei ''soli delle indipendenze'', sentivamo in continuazione Joseph Kabalese, alias Grand Kalle, intonare le parole di ''Indépendence cha cha cha''. Che senso ha una rivoluzione se non la si fa cantando? Scritta da Grand Kalle e cantata da Vicky Longomba, con il prodigioso Nico Kasanda, alias docteur Nico, alla chitarra, questa canzone è diventata l’inno di emancipazione del continente nero. Alcuni dei padri fondatori della rumba congolese erano lì, pronti a immortalare quel momento storico. Un appuntamento da non perdere per nulla al mondo. 

Petit Pierre, Dechaud, Brazzos, Nico, Vicky, Roger, Kalle

Nel 1960 Grand Kalle e il suo gruppo, l’African Jazz, erano a Bruxelles, dove doveva svolgersi la famosa tavola rotonda sull’indipendenza del Congo belga. Il brano nacque da un’iprovvisazzione, dettata dall’entusiasmo per quella liberazione tanto attesa dai popoli africani. ''Indépendance cha cha cha'' racconta questo evento storico. […] Tutti questi partiti e questi politici di primo piano si erano uniti in un ''fronte comune'' per ottenere la liberazione della nazione congolese. Le prime parole esaltano quel momento storico: ''Abbiamo ottenuto l’indipendenza / Siamo finalmente liberi / Alla Tavola rotonda abbiamo vinto / Viva l’indipendenza''. Io sono nato sei anni dopo e ho sempre sentito ''Indépendance cha cha cha'' nella maggior parte dei bar congolesi di Trois-Cents, il nostro quartiere a Pointe-Noire. A noi sembrava solo una canzone ''vecchia'' per amanti della rumba, niente di più. 

Dr. Nico

La verità è che, come tanti giovani della mia età, all’epoca non capivo il senso di quelle parole, anche se mi capitava di accennare qualche passo di danza sentendo la magica chitarra di Dr Nico. Vedevo gli adulti tutti in ghingheri, gli uomini con i pantaloni a zampa di elefante, le donne con i pagne colorati. Era ancora l’epoca dei giradischi, del vinile, dei 78 giri, poi dei 45 giri, con due facciate, il ''latoA'' e il ''latoB''. Alla fine del lato A bisognava girare il disco per ascoltare l’altro lato. E quando la canzone finiva la folla nel bar urlava in coro: ''Bis! Bis! Bis!''. 


Mio padre aveva conservato dei ricordi di quei tempi felici. Anche lui aveva ballato la rumba al ritmo di ''Indépendence cha cha cha'' e venerava Grand Kalle. In sala da pranzo aveva un suo poster. Quando mi fermavo davanti a quell’immagine, mi avvicinavo sempre per guardarla meglio. Grand Kalle posa di profilo, con il mento appoggiato alla mano sinistra. Guarda davanti a sé, in lontananza, con il sorriso di chi è soddisfatto per la direzione che ha preso la storia. Molto tempo dopo mi sono chiesto se la spensieratezza di quel ritratto non riflettesse l’atteggiamento degli africani dell’epoca. Sapevano che l’indipendenza implica anche il confronto tra mondo tradizionale e mondo moderno? Si rendevano conto che quella liberazione segnava l’inizio di un ''avventura ambigua'' e che, in un certo senso non eravamo più così lontani dall’universo descritto da Ahmadou Kourouma nel capolavoro ''Soli delle indipendenze''? […] ''Indépendence cha cha cha'' di Grand Kalle celebrava soprattutto la partenza dei bianchi, il diritto degli africani di gestire da soli il proprio continente. I balli e la gioia non ci hanno fatto pensare che la disillusione sarebbe arrivata rapidamente, in meno di cinque anni. Con il tempo, questo brano è diventato il simbolo della nostra ingenuità. Le luci ingannatrici delle ''indipendenze sulla carta'' ci hanno spinto a credere che bastasse la partenza dei bianchi a rimettere il continente nero sulla sua vera strada. Alcuni paesi africani ormai sono in mano a monarchi saliti al potere con la forza e capaci di ''colonizzare meglio'' dei bianchi, perché sanno come far votare le ''bestie selvagge''. E quando alcuni di questi monarchi muoiono, i figli proseguono il lavoro dittatoriale del genitore. Per grande sfortuna delle popolazioni africane.



Patrice Lumumba



Independence Cha-Cha - The Story of Patrice Lumumba 1/3




IL DISCO

Congo, Rumba On The River: tracklist; ascolto;  dwl pt.1; dwl pt.2

Licenziato nel 2006 dalla Syllart (l’etichetta fondata nel 1981 dal super-produttore della musica africana moderna, Ibrahima Syllart), ''Congo - Rumba On The River'', è il primo capitolo della collana African Pearls, una serie di doppi cd costruiti con il criterio di raccontare le vicende musicali di un paese in un’epoca ben precisa. Con implicazioni storiche evidenti (1954-1967) ''Rumba On The River'', è consacrato alla seconda generazione (quella cruciale) della musica urbana congolese, che cambierà per sempre i gusti di tutto il continente palpitando all’unisono con la vita sociale e politica del paese. Storia che comincia quando Kinshasa si chiama ancora Leopoldville ma già fa da sfondo alla laboriosa rivalità tra due scuole e due fabbriche di talenti: gli African Jazz del capostipite John Kabalese (Grand Kalle, appunto) e gli OK Jazz dell’emergente e sempre più giganteggiante Franco. Una lotta che con l’eccezione del 30 Giugno 1960, giorno dell’indipendenza, procede senza esclusione di colpi (musicali). Il primo, troppo lumumbista per poter vivere una carriera serena con Mobutu, lascia soprattutto quel monumento danzante alla suprema illusione che è ''Indépendence cha cha cha'' (contenuta anche in questa antologia); il secondo, dotato di genio e ambizione, diventerà invece una delle figure più importanti in assoluto della storia della musica africana moderna. In mezzo il vivaio, cresciuto sotto la loro ''autorità'': Tabu LeySam MangwanaDr. NicoPapa NoelTino Baroza … e le orchestre African Fiesta, Festival MaquisardRock A MamboBantous de la Capitale… La musica: un florilegio di afro-rumba, elisir di conforto e socializzazione della vita notturna di Kinshasa e Brazzaville. E’ l’arte del sebene, miscela resa danzabilissima dagli arpeggi ipnotici e dalle improvvisazioni di chitarra.

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mercoledì 20 ottobre 2010

Breakdance Project Uganda



Essere bambino in Uganda è perfino peggio che essere criminale. Ogni giorno, infatti, migliaia di fanciulli vengono sottomessi a violenze, malattie, maltrattamenti, sfruttamenti e povertà anche se, come dicono da quelle parti, ''c’è sempre uno spiraglio di luce che non ti abbandona''. A dimostrarlo è la storia di Abraham ''Abramz'' Tekya, orfano ugandese che dal 1992 si è costruito una certa notorietà come b boy nel suo paese natale. Abraham è anche il fondatore del duo Sylvester & Abramz, che utilizza l’hip hop come strumento di crescita e integrazione sociale, nonché l’artefice principale di Breakdance Project Uganda (B.P.U.), un progetto partito nel 2006 che si è posto come obiettivo la riabilitazione fisica e mentale dei bambini (spesso vittime di guerra) di Kampala e Mbale attraverso l’arte della breakdance. L’intento principale del progetto è soprattutto quello di tenere lontani ragazzi e bambini dalla violenza della strada, favorendo la loro aggregazzione attraverso una serie di laboratori e generando allo stesso tempo un ricambio generazionale.


Le lezioni vengono impartite dallo stesso Abraham a Kampala, e fin’ora il progetto stà funzionando molto bene, tanto che è stato aperto un nuovo centro a Gulu (nel nord del paese, teatro di guerre sanguinarie) per un totale di ben 300 bambini. Tra i personaggi coinvolti nel progetto più di recente, anche il newyorkino Richard Colón a.k.a. Crazy Legs, uno dei membri fondatori della leggendaria Rock Steady Crew, che dopo essere stato invitato da Abramz a visitare la regione e a impartire un paio di lezioni nei suoi centri, vedendo ballare i bambini si commosse a tal punto che decise di rimanere con loro. Questa bella storia di redenzione infantile è stata anche ''catturata'' di recente dal regista Nabil Elderkin (video maker abbastanza affermato in ambito hip hop) in un documentario intitolato ''Bouncing Cats'', (sotto il trailer) integrato da storie raccontate da Common e interviste esclusive di personaggi come Mos Def, Will I AM e K’Naan.


Albania Hotel


Opa Cupa: Hotel Albania (11-8 Rec., 2009)

Travolgente! E’ il primo aggettivo che mi viene in mente arrivato alla fine dei 15 brani di ''Hotel Albania'' (11-8 Records, 2009), il secondo lavoro degli Opa Cupa, un collettivo di musicisti formatosi circa una decina di anni fa attorno all’Albania Hotel (appunto), una masseria riconvertita in dimora e laboratorio, un luogo incantato nella campagna salentina dove le emozioni diventano suono e l’espressività musica, in totale libertà. Qui è passato mezzo mondo di musicisti: bosniaci, magrebini, rumeni, bulgari, albanesi, americani …; chi proveniva da bande musicali, chi dal jazz, chi dal turntublism , chi dalla musica classica e chi da quella etnica. Il loro coordinatore è Cesare Dell’Anna, un giovane e talentuso trombettista (coinvolto in molti altri progetti tra cui Tax Free e Nouria) che stà facendo la storia della musica della Terra dei Due Mari. Il gruppo, prende il nome dal grido di esortazione alla danza degli zingari del Sud-Est Europa («opa tzupa»), ed è orientato su un ricco repertorio influenzato da più stili, spaziando dall’etnico al jazz con ampio spazio lasciato all’improvvisazione. 

Albania Hotel

Nella loro musica la confluenza di popoli diversi si trasforma nella sincera espressione di una cultura regionale colorita e unica, dove sononorità balcaniche, mediterranee e mediorientali si fondono a quelle bandistiche tipiche della tradizione musicale del Sud Italia per dar vita a un florilegio di ritmi afro-balcan-jazz davvero travolgenti, originali e ricchi di sfumature. Naturalmente dal ‘98 ad oggi la la musica degli Opa Cupa si è evoluta, apportando man mano alcuni cambi stilistici, ma anche di formazione . ''Hotel Albania'' [ascolta], uscito sul finire del 2009 (e di cui esiste anche una versione remix) ospita numerosissimi musicisti: il trombettista Riccardo Pittau (Sardegna), Ivo Iliev - sax (Bulgaria), Marian Serban e Relu Merisan - cymbalon (Romania), Dj Trinketto - turntublism (Salento), Guergue Gueguev - percussioni (Bulgaria), Fabrice Martinez – violino, Alexandra Bejaurd - fisarmonica (Francia), Eugène Luca - trombone (Romania), Irene Lungo alla voce, il percussionista salentino Mauro Durante, ed il pianista albanese Ekland Hasa. Degna di nota anche la presenza del grande clarinettista Yasko Arghirov e del suo fisarmonicista Slavko Lambov (Bulgaria) che compaiono nel brano live "Yasko in Albania Hotel", improvvisato casualmente in una calda notte estiva nelle stanze dell’Albania Hotel e che chiude il disco così come era iniziato: con il botto.


martedì 19 ottobre 2010

Mademoiselle Marseille


MOUSSOU T E LEI JOVENTS


Si arricchisce di un uovo capitolo la discografia degli chansonnier occitani Moussu T e lei Jovents, da poco tornati con il nuovo lavoro ''Putan De Cançon'' ( Manivette, 2010). Il disco riconferma la forza espressiva del bellissimo ''Home Sweet Home'', uscito un paio di anni fa (ne parlai qui), anzi, se possibile cerca di allargarne l’orizzonte aggiungendo qualche piccolo elemento nuovo al solito mix di chanson marsigliese e cultura occitana con influenze blues, caraibiche, brasiliane, cajun, umori provenzali ecc. Anche in questo caso la materia è semplice, eppure mai banale, con una cura dei dettagli minuziosa e una prospettiva acustica che conferisce grande eleganza al tutto, grazie al solito, prezioso, apporto strumentale della chitarra e del banjo di Jovent Stéphane Attard detto ''Blu''. Un’altro splendido viaggio nelle tradizioni, senza aver paura dell’incontro, aperti al mondo e pronti a ricevere dal mondo, in piena tradizione portuale, soprattutto quella del vecchio quartiere dei cantieri navali di La Ciotat viciono a Marsiglia, e città d’origine di Moussu T, (al secolo Francois Ridel, altrimenti detto ''Tatou''). Moussu T e lei Jovents insistono nell’evocazione e nella rielaborazione della memoria, e sin dal loro esordio una delle cose che ha attirato l’attenzione su di loro è stato proprio il ricordo della città di Marsiglia. ''Mademoiselle Marseille'' (Le Chant Du Monde, 2005) era infatti una vivace raccolta di canzoni che raccontavano (al solito in francese e in occitano, l’antica langue d’oc del sud della Francia) la vita ai tempi in cui la città era il più grande porto francese del Mediterraneo.

Moussu T e lei Jovents: Mademoiselle Marseille (2010)

L’impiego della lingua e della cultura occitana per Moussu T non è certo una novità. Già all’inizio degli anni Novanta la band precedente di Tatou, i Massilia Sound System, costituiva il gruppo di punta della ''nuova onda occitana'' assieme ai Fabulous Trobadors, una band di Tolosa capitanata da Claude Sicre. Ma mentre Sicre amava mischiare la propria musica con lo stile delle canzoni del nordest brasiliano e all’hip-hop, i Massilia Sound System avevano invece optato per la Giamaica, riconoscendo un’affinità con i sentimenti dei ragga toasters, arrivando adirittura alla definizione di troubamuffin. Un elemento formativo per il nuovo gruppo fù invece la scoperta del romanzo ''Banjo'' dello scrittore e attivista culturale giamaicano-americano Claude McKay, che narra le avventure di una ciurma di caraibici ed africano-americani negli anni Venti, all’interno del vieux port di Marsiglia dalle luci rosseggianti. Banjo è stata la conferma del miscuglio multietnico che stà alla base della ricetta dei Moussu T e lei Jovents.



''Mademoiselle Marseille'', ha impiegato un anno per raggiungere il pubblico europeo della world music, soprattutto attraverso l'entusiastico passa parola degli appassionati del settore. Stesso discorso per l’album seguente ''Forever Polida'' (Le Chant Du Monde, 2006). Appena migliore il percorso degli ultimi dischi che sono invece riusciti a ritagliarsi una fetta di attenzione maggiore sin dalla loro uscita. Una splendida realtà ora quella del Signor T e dei suoi giovinastri che non evocano soltanto l’accannimento a un mondo scomparso e a uno stile di vita operario che ''credeva ancora al paradiso'' (a partire dai loro camicioni blu), ma sanno anche esprimere una visione poetica, il richiamo del mare che apre al mondo e unisce tutti, e lo fanno celebrando la gloria della loro città e ridando vigore a una lingua che rischia l’estinzione.


LO COR DE PLANA

Lo Còr de Plana: Tant Deman (Buda Musique, 2007)

Il loro primo album, ''Es Lo Titre'', che raccoglieva canzoni religiose e popolari in occitano, ha subito attirato l’attenzione sul sestetto vocale marsigliese Lo Còr de Plana: un gruppo di percussionisti e cantanti molto creativo e, come nel caso di Mousse T e lei Jovents, in grado di dare una nuova caratterizzazione e un nuovo slancio creativo alla musica pololare della loro regione. A quel primo lavoro seguì ''Tant Deman'' ( che rimane il loro ultimo disco ), pubblicato dalla Buda Musique (sì, proprio quella degli Ethiopiques ) nel 2007. La maggior parte dei brani sono stati scritti dal gruppo e lo spirito del lavoro è più 'leggero' e 'festoso' rispetto all'esordio. Sorprende l’energia ritmica che pervade le canzoni: voci e percussioni (mani, piedi, tamburi e tamburelli) si accendono improvvisamente in brani come ''La noviòta'' o nella tradizionale ''La vièhla''. In altri pezzi le voci si lanciano in continui cambi di velocità, costruendo gradualmente la tensione attraverso le ripetizioni e la sovrapposizione di timbri vocali differenti. L’effetto raggiunge la sua massima espressione in ''Nau Gojatas'' e ''Rompe Bassas''. Nelle più tranquille e più riflessive ''Fanfarnéta'' e ''Jorns De Mai'' i testi (molto commoventi, sembra) e le affascinanti armonie, sono il sottofondo perfetto per storie di amori impossibili o per esaltare le dolcezze della primavera. Le canzoni (stando a quello che ho letto nelle note) spaziano da storie di una tristezza devastante a esuberanti critiche della vita moderna  mentre le melodie permettono ai musicisti di esprimere la loro voglia di raccontare e di sperimentare soluzioni canore, chiaramente tutto rigorosamente in occitano. A mio avviso un lavoro davvero degno di nota.