sabato 30 maggio 2009

Mixtape

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L'inatteso ritorno della cassetta a nastro, nuovo feticcio dell'undeground..

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Scrive Ernesto Assante su La Repubblica (8 guigno 2008): "Se siete veri appassionati di musica sapete di cosa stiamo parlando. No, non solo del fatto di ascoltare la musica, di amare un disco, un brano, un gruppo, ma di far ascoltare quella musica, quei dischi, quelle canzoni, quei gruppi a qualqun altro. O di mettere insieme la musica preferita in una sequenza in grado di commuovere, di far pensare, di sorprendere, di dare un senso alla vita. Le cassette erano il primo strumento vero e proprio per il quale il 'dominio della copia' che dalla nascita dei dischi in poi era sempre rimasto nelle mani dei discografici, diventava 'nostro'". Il mix tape "era un oggetto che racchiudeva una vita intera, un modo di vedere il mondo, una fotografia della realtá vista da un punto di vista particolare".
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Mixtape: Il libro

.Le audiocassette non esistono più, eppure 20 anni fa rappresentarono una rivoluzione. Anche artistica ed estetica. Realizzare compilation e disegnare copertine fu un’attività che coinvolse milioni di ragazzi. Mix-Tape, l'arte della cultura delle audiocassette realizzato da Thurston Moore, è l’omaggio tributato da Thurston Moore, leader e chitarrista del gruppo rock Sonic Youth al supporto audio più diffuso e creativo degli anni '70 e '80. Il volume raccoglie le storie collegate alle personali selezioni musicali su nastro di una ottantina di personaggi dell’underground musicale di New york e si presenta in una veste grafica che riproduce in formato libro le famigerate c 60 e c 90 e relative covers e disegni fatti a mano. E' inoltre un saggio-omaggio che si avvale del contributo di nomi noti nel panorama culturale internazionale: visual artists, musicisti, dj, esponenti dell’arte contemporanea, scrittori e sceneggiatori (tra cui Jim O’Rourke, Leah Singer, John Zorn, Allison Anders, Galaxie 500, Mike Watt e molti altri). Un tributo a un periodo di creatività straordinaria, una raccolta di playlist, una contaminazione di stili e involucri espressivi, una sorta di catalogo della memoria.
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L’autore
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Thurston Moore è voce e chitarra di uno dei gruppi più influenti del rock dell’ultimo ventennio: i Sonic Youth. Ha collaborato con i più importanti artisti della scena alternativa americana.





Mix tape, quando la musicasi scaricava sulle audiocassette di THURSTON MOORE


LA PRIMA volta che sentii parlare di un mix su cassetta fu nel 1978. Robert Christgau, il "decano dei critici rock", scrisse un pezzo su Village Voice sul suo disco preferito dei Clash, guarda caso una sua produzione: una cassetta con le b-side della band non incluse negli album. I Clash scrivevano singoli fantastici, e album fantastici, e di solito inserivano i singoli nei dischi, ma non le b-side. Comunque, dal punto di vista della mia mentalità da critico musicale, la sua era un'ottima pensata. Un aspetto in particolare mi colpì: Christgau sosteneva che si trattasse di un mix tape che aveva compilato per regalarlo agli amici. Si era fatto il suo album personale dei Clash e lo dava in giro come memento alla sua devozione per il rock'n roll. C'era una cosa che lui possedeva e io no: una piastra a cassette.

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A quei tempi, i mangianastri erano tanto fondamentali quanto i giradischi. Ed erano ugualmente ingombranti. Ma in quel periodo la Sony lanciò il Walkman: un mangiacassette portatile grande la metà degli apparecchi standard - più o meno come i registratori che in genere si vedevano tra le mani dei giornalisti. Questi nuovi Walkman si portavano a tracolla, erano l'ideale per andarsene a zonzo per la città ascoltando musica con gli auricolari. Immagino che l'industria discografica si aspettasse che gli utenti acquistassero le cassette originali degli album, e di certo fu così, ma ehi! perché non comprare cassette vergini e registrare singoli brani dai dischi?.
Ecco cosa fecero tutti quelli che si erano muniti di Walkman. Non passò molto che su album e cassette originali apparvero adesivi come: LE REGISTRAZIONI DOMESTICHE UCCIDONO LA MUSICA! Se non altro, anticipava l'attuale paranoia dei discografici sui cd masterizzati e le canzoni scaricate da Internet.
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Tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta non potevo permettermi un Walkman, ma il mio vicino al piano di sopra, l'artista Dan Graham, ne aveva uno nuovo - e tonnellate di vinili. Comprava tutti i dischi di punk rock e new wave in circolazione, li metteva su cassetta, quindi me li passava per ascoltarli sul mio vetusto mangianastri. Più o meno tra il 1980-1981, si assistette a una spontanea proliferazione di giovani band, che pubblicavano singoli hardcore-punk super veloci, la maggior parte dei quali si atteneva ai canoni del thrash. Gruppi come Minor Threat, Negative Approach, Necros, Battalion of Saints, Adolescents, Sin 34, The Meatmen, Urban Waste, Void, Crucifucks, Youth Brigade, The Mob, Gang Green ecc.
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Erano grandi! Dal vivo facevano scintille e registravano album pazzeschi. Molto ruvide e dirette, le canzoni difficilmente superavano il minuto di lunghezza. Ero un fanatico, li compravo tutti appena uscivano. Ogni giorno pagavo pegno da Rat Cage in Avenue A per impossessarmi di tutti i sette pollici di hardcore esposti sulla parete. Certo, era una spesa, ma non un salasso. Ogni singolo costava due o tre dollari. Ma al tempo facevo ancora il lavapiatti in un ristorante di Soho - non navigavo propriamente nell'oro - eppure dovevo assolutamente avere quei dischi!
La mia amata Kim tornava a casa dal lavoro ogni giorno, commessa da Todd's Copy Shop e cameriera da Elephant & Castle in Prince Street, e mi beccava ad ascoltare singoli hardcore dalla mattina alla sera. Credo che abbia scritto anche un testo sul suo ragazzo (io) che passava così le sue giornate. Mi sentivo un po' in colpa, avevo bisogno di ascoltare quei dischi con calma e attenzione, e mi venne in mente che potevo preparare un mix con i pezzi migliori di quegli album - e visto che erano tutti così brevi e con la stessa potenza ed energia, la cassetta sarebbe stata un monolito hardcore.




Avevamo libero accesso all'appartamento di Dan, così una volta ci andai e registrai il mio mix, che per me era la cassetta definitiva di hardcore mai realizzata. Su un lato scrissi H, sull'altro C. Quella notte, mentre eravamo a letto, dopo che Kim si era addormentata, infilai la cassetta nel nostro mangianastri, trascinai uno dei piccoli altoparlanti sul letto, e ascoltai il mix a un volume ultrabasso. Ero in uno stato di beato mormorio. Quella musica faceva sfrigolare ogni cellula, ogni fibra del mio corpo. Era bello. Quell'estate, per il mio compleanno, Kim mi regalò un Walkman con altoparlante incorporato. In questo modo potevo tenere il Walkman vicino al cuscino e suonare il mix H. C. a un livello ancora più intimo. [...] A metà degli anni Ottanta, prima di un tour con i Sonic Youth, decidemmo di munire il furgone con un mangianastri. L'idea era di prendere un'autoradio fissa, ma era una soluzione troppo dispendiosa. All'epoca a New York impazzavano per le strade giganteschi stereo che sparavano mix di rap da casse spropositate, i cosiddetti "ghettoblaster". Lo stile hip-hop "della strada" esigeva misure sproporzionate. Scarpe da basket titaniche con stringhe super ampie, occhiali grandi come metà della faccia, catene d'oro che chiamavamo "funi" tanto erano spesse e massicce, e gli stereo portatili avevano le stesse dimensioni di un carrello del supermarket. 

[...] Ai tempi Delancey Street, e la traversa Orchard Street, erano la zona del centro dove si concentravano i negozi di abbigliamento e accessori hip-hop. [...] Le domeniche pomeriggio qui erano folli, con gente che se ne andava in giro con i propri stereo oversize sparando a palla Spoonie G e DST (un grande rapper vecchia maniera, il cui nome stava per Delancey Street). Poi c'erano i rockettari indie punkoidi come me - affamati e spiritati, che si nutrivano di tutto. Le cassette mix di hip-hop, disposte per la vendita su tavoli di cartone, cominciarono a riferirsi a un sistema di valori dettato da chi compilava la scelta dei brani. [...]
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Run DMC e LL Cool J cominciavano a spopolare, la Def Jam lanciava sul mercato un nuovo ibrido di punk rock/hip-hop, e i dischi uscivano alla velocità della luce. Tutto questo, per segugi della musica come me, rendeva la vita di tutti i giorni piuttosto eccitante.[...] Quindi entrai nel negozio in Delancey Street e, con i fondi limitati della band, comprai il più imponente "ghettoblaster" in esposizione. Era davvero massiccio (è massiccio, ce l'ho ancora)[...]. Quando mi presentai, gli altri videro il mangianastri, stupiti che avessi buttato i soldi del gruppo per quel gigantesco obbrobrio di plastica. [...]
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Mentre percorrevamo l'Holland Tunnel, distanziandoci sempre più dalla città, pensai che fosse giunta l'ora di mettere uno dei miei mix. Infilai la prima delle cassette di rap e lo stereo si dimostrò un grande acquisto. Economico, ma superbo. E funky. La musica che usciva da quell'apparecchio non poteva che essere perfetta. Nel giro di venti secondi arrivarono le prime voci di dissenso: "Puoi abbassare, per favore?", "Hai altre cassette dietro?", "Io ho portato Johnny Cash...".

Quando arrivammo sulla West Coast, ormai eravamo tutti affezionati al Conion (la marca del mangianastri, che ribattezzammo Conan). Nei concerti lo portavamo sul palco, microfonavo gli altoparlanti per giocare con i nastri tra un pezzo e l'altro. I fan in tutta America ci lasciavano le loro cassette - alcuni, speranzosi, i loro demo - compresi mix che poi ascoltavamo. [...]

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Alla fine del tour, nel furgone erano disseminate centinaia di cassette, con le custodie di plastica calpestate e rotte. Anni dopo, avrei raccolto tutti i mix in uno scatolone per darli a Kim quando venne ricoverata in ospedale per partorire. A volte, quando spulcio nei meandri della nostra casa mi ci imbatto ancora e, come in una foto, mi vengono in mente flash di quegli anni incredibili.




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Questo libro non parla di arte bella. La cultura dell'audiocassetta, creata da musicisti, pirati, delusi dall'amore e diseredati, non è stata la cultura più elegante del pianeta. Si trattava di arte povera - un lungo e variegato testamento dell'etica della vita di strada tipica del modello fai-da-te della scena punk.
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Le cassette furono il risultato di un elaborato sistema di produzione e distribuzione mediatica a livello commerciale. I punk, nelle loro ramificazioni e correnti, adattarono la funzione delle cassette interferendo, intervenendo, piegando quella colossale macchina commerciale per i loro fini personali, senza rendersi conto che sarebbe sopravvissuti alle cassette. Il sistema era colossale, ma fragile.
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La cassetta ha avuto lo stesso vita breve. Come una star maledetta. Non certo per colpa sua; il digitale l'ha annichilita all'improvviso, sbucato dal nulla, proveniente da una tecnologia del tutto aliena che con la pacifica cassetta aveva la stessa somiglianza di un guerriero mongolo con un contadino cinese.
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Credo che fosse proprio questo il segreto dei mix tape - non erano musica, ma istruzione e cultura. Tramite la pratica apparentemente sterile di ritagliare, creare collage e disporre suoni in certo ordine, si potevano impartire valide lezioni su musica e vita, per insegnarle a persone con metodi che arrivavano al cuore di ciò che la musica significava, alle emozioni che regalava.
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Nel video sopra il giornalista musicale Valerio Mattioli parla dell’ inatteso ritorno della cassetta a nastro.

mercoledì 13 maggio 2009

Hanif Kureishi e la città storta

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Ho scovato questo articolo dello scrittore anglo-pachistano Hanif Kureishi uscito per The Guardian il 24 gennaio 2009, all'indomani di un suo viaggio a Venezia con la famiglia: Harry's Bar, gruppo ska alla Giudecca (sicuramente Ska-j) e due chiacchere con la figlia di Arnold Schömberg... Mi sembrava carino e ho pensato di proporvelo (potete anche leggerlo nella sua versione originale in inglese entrando qui). Ciao.
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Per provare il brivido dell'avventura, quest'anno abbiamo deciso di andare fino a Venezia. Negli ultimi tempi eravamo diventati refrattari ai viaggi. Le ultime vacanze le abbiamo passate a Watford, a venti minuti da casa. Tanto valeva fare i pendolari. Così questa volta siamo andati a Parigi con l'eurostar, poi abbiamo preso la metropolitana fino alla Gare de Bercy e infine siamo saliti su un altro treno e abbiamo viaggiato tutta la notte. Ho preso due sonniferi e mi sono infilato, vestito, sotto la coperta leggera della cuccetta. Una volta sdraiato ho riflettuto su quanto sia piacevole osservare dal finestrino il panorama e le luci che sfrecciano. Al risveglio eravamo già a Venezia e il treno stava quasi per scaricarci nel Canal Grande.
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Non ero mai stato a Venezia d'inverno: ha una bellezza diversa, austera e fresca. La giornata era splendida e al ponte di Rialto c'era un negozio che vendeva souvenir dei Beatles, uno dei miei preferiti. Le persone mangiavano all'aperto e per fortuna non c'era traccia dell'alluvione di dicembre, la peggiore che ha colpito la città, dopo quella del 1966. Al telegiornale avevo visto un uomo che attraversava piazza San Marco in canoa, mentre la gente avanzava immersa nell'acqua fino alla cintura. E come se non bastasse, c'era anche lo sciopero dei trasporti.
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Il nostro albergo, a Palazzo Barbarigo, aveva le luci basse, come usava negli anni Ottanta. Sembra uno di quegli eleganti alberghi newyorkesi progettati da Philippe Starck, dove non ci sono le linee rette e per orientarti hai bisogno di una torcia anche quando le luci sono accese. Però ha dei pavimenti perfetti per un bambino che vuole pattinare sui calzini. Io e mia moglie temevamo che nostro figlio Kier non avrebbe avuto abbastanza distrazioni in una città che è un museo acquatico a cielo aperto. Invece Kier saltellava contento nelle sue crocs. Venezia offre shopping, acqua e gite in barca. Senza contare i piccioni che in piazza San Marco si posano sulla testa dei bambini.
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La città gli è piaciuta moltissimo. E anche lui è piaciutoa tutti. Sui vaporetti, per strada e nei caffè i veneziani gli hanno offerto di tutto: rose, dolci, aeroplanini di carta, penne e baci affettuosi. Un ragazzino di dieci anni curioso e vivace, che ha ancora la simpatia di un bambino senza l'agressività di un adolescente, è il compagno di viaggio ideale. Così io e lui siamo andati a chiaccherare all'Harry's Bar, dove i camerieri gli hanno preso la giacca e gli hanno servito patatine e gelato. Il locale è sempre elegante, affollato, frequentato da molti scrittori. Ma ormai gli autori devono farsi accompagnare dal loro editore se vogliono avere qualche possibilitàdi pagare il conto.
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Anni fa, un mio amico, che non conosceva bene l'inglese, pensava che la traduzione del saggio di John Gray Men are from Mars, women are from Venus, fosse: gli uomini vengono da Marte, le donne da Venezia (Venus in inglese significa Venere). Le donne di Venezia, però, sono soprattutto delle anziane signore impellicciate, probabilmente vedove, il più delle volte accompagnate da cani piccolissimi. In giro ogni tanto si vedono anche dei bambini, ma sembra che in città non ci siano adolescenti. Forse risparmiarsi la loro esuberanza può avere lati positivi, ma per altri versi è un po' strano. Senza i giovani che futuro può avere una città il cui fascino deriva dall'eterno declino? Dalle scritte sui muri intuisco che ci sono dei ragazzini in giro, ma fino a sera non se ne vede nessuno. La mia amica e pittrice Serena Nono vive sull'isola della Giudecca nell'appartamento in cui lavorava il padre, il compositore Luigi Nono. Quando piazza San Marco è troppo affollata e claustrofobica, quasi tutti i giorni dell'anno, conviene prendere il vaporetto e rifugiarsi su quest'isola, che è a soli dieci minuti dal cuore della città.
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Serena vuole mostrarci un'altra faccia di Venezia. ''Ricordatevi che in questa città tutto è storto'', ci ha detto indicando per terra e poi in direzione dei palazzi. Una sera, seguendo il suo consiglio, io e Kier abbiamo preso il vaporetto e l'abbiamo raggiunta alla Giudecca. I vaporetti passano tutte le ore della notte e sono molto piacevoli, come autobus che navigano tra antichi palazzi galleggianti. Quella sera però era buio e faceva freddo e in giro non c'era nessuno. Io e Kier ci siamo chiesti se ci fosse veramente qualcosa di interessante da fare, visto che per strada c'era solo un pachistano disperato che ci ha venduto una penna laser e un paio di occhiali luminosi. Almeno con questi riuscivo a vedere mio figlio. E comunque, anche se trasuda un senso di minaccia e morte, Venezia non è una città violenta. E una delle cose migliori da fare lì è perdersi. Avevamo appuntamento con Serena vicino alla fermata delle Zattere, dove c'è un ex magazzino occupato. Un gruppo di persone beveva vin brulé, fumava, giocava a biliardino e dava da mangiare ai cani. Una band ha intonato le cover di Elvis e la gente si è alzata e ha cominciato pian piano a ballare elegantemente il twist. Nel frattempo su uno schermo venivano proiettati dei film in bianco e nero anni cinquanta. Kier si è piazzato davanti al palco ed è rimasto in piedi a guardare. Credo che fosse la prima volta che sentiva Heartbreak Hotel e Hound Dog. Poco dopo sono state proiettate anche le opere di Serena, mentre sul palco cominciava a suonare un gruppo ska. Era talmente tanto tempo che non sentivo un bravo gruppo ska (con tanto di sassofonista e trombonista rasta) che ho cominciato a muovere il corpo seguendo il ritmo della musica, ma tenedo fermi i piedi.
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Ska-j

Kier era ancora in prima fila, con la gente che saltava da una parte all'altra. Una ragazza adolescente lo ha preso per mano e gli ha fatto fare la giravolta. Era quasi mezzanotte quando l'ho trascinato fuori dal locale. La Giudecca, un tempo casa di Michelangelo e Alfred de Musset, e oggi di Elton John, è bella anche di giorno. Serena ci ha portato a visitare il suo studio in una ex distilleria, dove un mese prima aveva trovato i suoi quadri che galleggiavano nell'acqua. Quando li abbiamo visti erano tutti asciutti e sistemati ordinatamente controle pareti.

un quadro di Serena Nono

La vita a Venezia è costosa perchè ogni cosa deve essere trasportata con le barche. Ma chiunque può concedersi una cioccolata calda con panna passeggiando dalla tetra prigione femminile fino al semideserto Hotel Hilton, dove ci si può sedere sulla terrazza e godersi la vista più bella della città. Aveva ragione Jan Morris, quando diceva nel suo magistrale Venezia, pubblicato nel 1960: ''Questa non è una città grande. La si può abracciare interamente con losguardo. Lunga tre chilometri e mezzo, la si può percorrere a piedi dal mattatoio a nordovest fino ai giardini pubblici a sudest, in un'ora e mezza''.
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Per noi era fondamentale capire dov'è che si mangia la pizza più buona. Per fortuna, a dieci minuti dall'albergo c'è Campo Santa Margherita, a Dorsoduro, uno dei sestrieri di Venezia. Una serie di trattorie all'ombra degli alberi punteggia la piazza. La mattina c'è il mercato del pesce. In un bar abbiamo incontrato un attore, un uomo distinto che somigliava a Fernando Rey. Anche se non parlava l'inglese né io italiano, ci ha invitato insieme a Serenaa casa sua per il giorno dopo, la notte di capodanno. Ci abbiamo pensato un attimo. Sembra un po' strano presentarsi a casa di una persona appena conosciuta, per quanto gentile, l'ultimo dell'anno. Ma che altro potevamo fare in una città che non era la nostra? In albergo avevano organizzato un veglione, un'alternativa un po' impersonale. Alla fine, quindi, abbiamo comprato una bottiglia di prosecco e ci siamo presentati da Rey. Era una cena a base di pesce, squisita e accogliente. C'erano altri bambini ed eravamo tutti seduti intorno a un piccolo tavolo. L'attore ha tirato fuori i suoi album degli anni sessanta, ha messo su un disco gracchiantedei Rolling Stones e io e lui, due perfetti sconosciuti, ci siamo messi a ballare insieme. Dopo un po' ho ritrovato Kier all'aperto, in riva al canale, con una stella di natale in mano, ipnotizzato da una ragazza italiana dai capelli lunghi. Mentre il mio tasso alcolico saliva, Nuria, la madre di serena, originaria di Berkeley e figlia del compositore Arnold Shönberg, mi ha raccontato una serie di aneddoti sulla sua infanzia: la sua famiglia che andava a cena da Thomas Mann e lei che giocava in giardino con altri bambini. Oppure la lunga attesa per una visita di Bertold Brecht.
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Poi, come in una scenografia che sembrava preparata apposta per noi, verso le undici e mezza ha cominciato a nevicare. A mezzanotte sono partiti i fuochi d'artificio da piazza San Marco. La vista era perfetta, con i razzi che esplodevano nella neve sempre più fitta. Le coppie in casa ballavano e si abracciavano.
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Abbracciare gli sconosciuti non mi dispiace, se sono italiani. Sembra quasi una scena di Fanny e Alexander. Bagnati e con le teste imbiancate, ci siamo infilati sul vaporetto affollato, mentre le campane della città suonavano a festa. Al bar dell'albergo un cameriere mi è venuto incontro con un vassoio su cui c'erano una torta al cioccolato a due piani e un enorme bicchiere di vodka. Dopo i cinquant'anni i piaceri diventano più rari, ma si aprezzano di più.

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Mi piace pensare di essermi svegliato la mattina dopo con il bicchiere di vodka ancora in mano.
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Hanif Kureishi è nato a Londra nel 1954 da padre d'origine pachistana e madre inglese. Dal 1985 scrive romanzi, opere teatrali e sceneggiature per la televisione e il cinema. Il suo ultimo libro è Ho qualcosa da dirti (Bompiani, 2008)